lunedì 26 settembre 2016

Paura della solitudine?

No, l’uomo pre-moderno non la temeva, perché la vita gli riempiva a sufficienza l’esistenza, con i suoi ritmi naturali, con i suoi quotidiani contatti sociali. Nei villaggi rurali non si era mai soli: si è soli, invece, nelle grandi città moderne. E più grande è la città, più grande il grattacielo, più grande la villa con giardino e piscina, più si sente il peso della solitudine.

La solitudine è una malattia moderna, che nasce dall’individualismo esasperato, dall’egoistica corsa al successo, dalla competizione sfrenata di tutti contro tutti.Si è soli, quando intorno a sé non si hanno più dei simili, ma solo e unicamente dei potenziali antagonisti. Si è soli, quando il rumore delle cose inutili non basta a riempire il silenzio dell’anima.

Ecco perché gli uomini moderni, appena rientrati a casa dopo una giornata faticosa, stressante, per prima cosa accendono la radio o la televisione: sono come dei drogati, non possono vivere senza quantità sempre più grandi di rumori superflui, di voci inutili. Non sono capaci di stare soli con se stessi nemmeno per qualche ora, per qualche minuto: perché non sono in pace con se stessi, non sono in armonia con se stessi,non si vogliono bene, non si ascoltano e non si comprendono. Sono continuamente fuori centro, continuamente protesi verso l’esterno: ma chi non è in pace con se stesso, non può esserlo nemmeno con gli altri. Né con l’ambiente. Né con Dio. È in guerra contro tutto e contro tutti, ogni giorno, ogni ora, senza tregua né respiro, mai.

L’uomo moderno ha paura, anzi terrore della morte, della povertà e della solitudine, perché non accetta la propria condizione creaturale, la propria fragilità, la propria finitezza ontologica. Vorrebbe essere simile a un dio, perché gli dei non sono soggetti alla morte, non sono indigenti, non soffrono di solitudine; sono eternamente beati.

Anche l’uomo moderno vorrebbe essere eternamente beato. La cultura illuminista, della quale è figlio, gli ha instillato il pensiero che la felicità è un suo diritto e che egli può raggiungerla adoperando la ragione, ossia liberandosi da tutte le sciocche e dannose superstizioni del passato, dai miti, dalle tradizioni, dalle religioni, dalle credenze irrazionali; ma la sua idea di razionalità è angusta e presuntuosa, coincide con una assolutizzazione della scienza materialista: è un nuovo credo religioso, ma capovolto e assai più intollerante di quello che pretende di sostituire.

«I want to be happy», voglio essere felice: è la bandiera sotto la quale marciano in ranghi serrati, al suono dei pifferi e al rullo dei tamburi, le folle della modernità; e pochi, molto pochi sembrano domandarsi come mai questa promessa felicità sia sempre dietro l’angolo, sia sempre un po’ oltre tutti i loro sforzi, tutte le loro aspettative. I più ritengono che sia solo questione di tempo, che basti ancora un ultimo sforzo, che la prossima generazione, senza fallo, non dovrà temere più né la morte, né la povertà, né la solitudine, e che il regno della felicità verrà instaurato vittoriosamente sulla terra.

Ma non è così. Il regno della felicità non è dietro l’angolo; o se lo è, lo è come conquista della singola persona, non come retaggio della filosofia dei lumi, o della scienza, o della tecnica. Lo è come risultato di un percorso individuale, fatto di umiltà e coraggio; come punto d’arrivo di un cammino che ha rinunciato alle ingannevoli promesse della cultura materialista e che ha imparato a comandare sopra le proprie brame disordinate.

Dovremmo imparare dai nostri nonni e da tutte quelle culture che non erano dominate dalla triplice paura della morte, della povertà e della solitudine. Non occorre essere dei samurai, meno ancora dei kamikaze, per non lasciarsi dominare dalla paura della morte: è sufficiente la coscienza di una vita ben spesa, amando e non odiando, costruendo e non distruggendo, perdonando e non serbando rancore.

Non occorre essere dei santi, come Francesco d’Assisi, per guardare alla povertà non come a una odiosa nemica, ma come a una sposa degna d’essere amata: basta sapersi staccare dal dominio tirannico dell’avere, dal ricatto permanente dell’apparire. E non è necessario andare a vivere in un eremo o in un monastero di clausura, per mostrare di non aver paura della solitudine: è sufficiente l’abitudine al raccoglimento, alla meditazione, al silenzio; è sufficiente saper ascoltare le voci che ci parlano nel silenzio, specialmente quella del Maestro interiore.

Quando sapremo vedere nella morte una “sorella” che ci viene incontro per dare sollievo alle nostre membra affaticate dal lungo cammino; nella povertà una sposache ci aiuta a riscoprire le cose importanti, le cose essenziali, liberandoci dalle illusorie apparenze; quando saremo capaci di vedere nella solitudine un’amica preziosa, che ci aiuta a ritrovare la parte più vera di noi stessi, a ritrovare il profumo e il sapore della vita autentica: allora troveremo la pace; perché chi è libero dalla paura, è nella pace.

Chi è nella pace, non si turba e non si spaventa al primo soffio di vento: anche se soffre, anche se è povero, anche se è solo. Essere nella pace, infatti, non vuol dire non soffrire più: il malato soffre, colui che ha perso la persona amata soffre, e soffre chi è oppresso da preoccupazioni; però tutti costoro possono dare un significato diverso alla loro tribolazione.

Non è la sofferenza che va fuggita, ma la sofferenza sterile, disperata, che incattivisce, inaridisce, disumanizza. Si può portare la propria croce anche con un senso di pace. Ed è questo che si riesce a fare, quando ci si è liberati alla paura…

Articolo di Francesco Lamendola
Rivisto da www.fisicaquantistica.it

http://www.fisicaquantistica.it/evoluzione-personale-e-consapevolezza/vincere-le-tre-paure-delluomo-moderno-morte-poverta-solitudine


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