Denaro e vita spirituale

di Roberto Assagioli 
Vi sono ancora tanti preconcetti e tante incomprensioni riguardo alla spiritualità che non mi meraviglierei… che alcuni si fossero stupiti del titolo di questo studio. Quindi non è forse inutile riaffermare che la spiritualità non consiste nel fare teorie ed astrazioni; non è un idealismo lontano dalla vita.
La spiritualità consiste anzitutto nel considerare ogni problema della vita umana da un punto di vista elevato, comprensivo, sintetico; nel saggiare tutto in base ai veri valori, nel cercare di arrivare all’essenza di ogni fatto, senza lasciarsi arrestare dalle apparenze esteriori, senza lasciarsi illudere dalle opinioni tradizionali, dalle passioni collettive, dagli istinti, dalle emozioni, dai preconcetti personali.
Far ciò è arduo, e può sembrare orgoglioso. Invero sarebbe grande presunzione il cercare di riuscirvi appieno; però il tentarlo non solo è lecito, ma costituisce un preciso dovere, dato che la luce spirituale proiettata sui più assillanti problemi individuali e collettivi rivela delle soluzioni, e mostra delle vie che possono fare evitare pericoli ed errori, risparmiare molte sofferenze e quindi arrecare benefici incalcolabili.
La concezione spirituale della vita e delle sue manifestazioni, lungi dall’essere qualcosa di accademico, di astratto, di sterile, è eminentemente rivoluzionaria, dinamica e creativa.
È rivoluzionaria, perché alla luce dello Spirito le valutazioni ordinarie e gli atteggiamenti pratici che ne derivano si dimostrano fondamentalmente errati. È naturale ed inevitabile che sia così, poiché quelle valutazioni e quegli atteggiamenti sono egocentrici e separativi; essi cioè deformano la realtà secondo una falsa e ristretta prospettiva, creano artificiali scissioni in quella che in realtà è una unica Vita.
Il punto di vista spirituale produce quindi una serie di «rivoluzioni copernicane», sostituendo al punto di vista antropocentrico e personalistico un eliocentrismo spirituale che mette al giusto posto i fatti ed i problemi che si considerano e soprattutto… noi stessi.
La spiritualità è dinamica e creativa, poiché i cambiamenti di prospettiva, i capovolgimenti di valori, lo snebbiamento da illusioni, la vera e propria trasfigurazione del mondo e della vita prodotta dalla nuova luce, producono profondi cambiamenti in noi, risvegliano nuove potenti energie, allargano il campo della nostra azione sugli altri cambiano radicalmente la qualità di tale azione.
È quindi sommamente opportuna l’opera di revisione radicale che si sta tentando da parte degli animi più svegli e più fervidi in tutti i campi della vita umana.
Tali revisioni spirituali implicano una doppia attività: anzitutto una chiara comprensione ed una decisa riaffermazione dei principi e dei valori eterni dello Spirito; poi l’applicazione di quei principi e di quei valori ai problemi concreti, personali e sociali, contemporanei.
Infatti, in ogni epoca ed in ogni individuo quei problemi assumono aspetti diversi ; i molteplici elementi della vita, pur rimanendo fondamentalmente gli stessi, si aggregano in combinazioni sempre diverse, creando forme sempre nuove; perciò le soluzioni spirituali – pur partendo sempre dagli stessi punti iniziali – per essere aderenti a quella ognor mutevole realtà ed aver quindi efficacia pratica, devono essere plastiche ed, in un certo senso, sempre nuove ed originali.
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Fra i tanti problemi che assillano ora l’umanità, ve ne sono due che riguardano gli interessi più centrali, i più forti impulsi all’azione nella vita degli individui e delle collettività, e che quindi forse più degli altri richiedono di essere esaminati ed illuminati alla luce dello Spirito.

Sono i nostri atteggiamenti verso l’amore (inteso nel suo senso più ampio, includente la sessualità, ma non limitato ad essa) e verso il denaro.

Ora tenterò brevemente, con l’aiuto di altri che si sono proposti questo compito, di considerare il secondo di questi problemi.
Se esaminiamo noi stessi con quella coraggiosa sincerità che é condizione essenziale di una vita spirituale degna di tal nome, ci accorgiamo che il pensiero del denaro suscita in tutti noi profonde ed intense risonanze: è un tumulto di oscure emozioni, di reazioni appassionate, le quali mostrano che l’idea di quel metallo tocca alcuni dei punti più sensibili della nostra personalità.
Conviene far luce in quel caos e perciò lasciar affiorare alla nostra coscienza, eliminando ogni censura psichica, tutto ciò che insorge dai bassifondi del nostro subcosciente. Allora emerge un torbido fiotto in cui sono frammisti correnti di paura, di desiderio, di avidità e di attaccamento sentimenti di colpa, di invidia, di risentimento.
Cerchiamo di risalire alle sorgenti di queste forze con l’aiuto di Hermann Keyserling, il quale ha meglio di ogni altro, crediamo, indagato le oscure radici telluriche di ciò che nella personalità umana si è sviluppato dal basso, di ciò che in essa vi è di minerale, di vegetale e di animale, senza però cadere nell’errore, commesso da altri esploratori dei bassifondi, di disconoscere quello che invece ha origine superiore e affatto indipendente: ciò che egli chiama con espressione efficace «l’irruzione dello Spirito».

Nelle sue Méditations Sud-Américaines (Paris, Stock), che sono forse la sua opera più profonda, e poi nel libro riassuntivo Vie intime, egli mette in evidenza come vi siano alle radici stesse della vita due istinti primordiali. Il primo è la Paura originaria, riguardo alla quale egli segnala un fatto importante, che cioè: «questa paura originaria non si riferisce alla morte ma alla carestia», cioè alla paura di mancare del cibo necessario, paura della fame.
«Vi è probabilmente in ciò un oscuro ma intenso ricordo atavico dell’assillante ricerca del cibo che costituiva l’ansia continua dell’uomo primitivo. Come salvaguardia contro questa Paura originaria, l’istinto di sicurezza costituisce il primo impulso attivo di ogni essere vivente» – dice il Keyserling, e da questo istinto di sicurezza si sviluppa, secondo lui, l’istinto della proprietà. La proprietà, quale salvaguardia contro la paura originaria, può manifestarsi in diverse forme. ( Vie Intime, pp. 41-42).

L’altro istinto fondamentale, che sorge dai bassifondi dell’inconscio e che è il contrapposto dinamico del primo, è quello che il Keyserling chiama Fame originaria, ma che, per evitare confusioni, sarebbe più opportuno designare come Avidità originaria. Essa, dice il Keyserling, è «il Principio motore di ogni crescita. Ora la crescita, per sua essenza, aspira all’infinito, e sin dall’inizio non riconosce alcun limite come definitivo. Per conseguenza, la Fame Primigenia è originariamente aggressiva ed insaziabile. Per sua natura è opposta ad ogni istinto di sicurezza; il rischio è il suo elemento; l’illimitato è ad ogni istante il suo scopo. Da ciò, un conflitto originario con tutto ciò che appartiene all’«ordine della Proprietà e del Diritto. Nei bassi fondi, un perpetuo combattimento si accanisce tra Fame e Paura; non vi è alcun equilibrio permanente ed armonioso» ( Vie Intime, p, 47).
Non è difficile scorgere come nel piano di vita della nostra cosiddetta civiltà, entrambi quegli istinti si manifestino come bramosia di acquistare e conservare la maggior somma possibile di denaro e di altri beni materiali. E la potenza di quegli istinti, malgrado i millenni trascorsi e il parziale raffinamento della vita umana, è ancor sì travolgente, che essa prevale – sia con manifestazioni violente, sia per vie subdole ed indirette e mascherata mediante ipocrite giustificazioni – sopra ogni altro movente o freno superiore, e non di rado supera perfino l’istinto di conservazione.
Se potessimo renderci conto della somma di delitti, di tradimenti, di furti, di frodi, di prepotenze, di prostituzioni fisiche e morali, di bassezze d’ogni genere, più o meno larvate che gli uomini quotidianamente commettono per la auri sacra fames, per l’esecranda avidità del denaro, ne saremmo profondamente turbati, anzi atterriti. E se poi facessimo un esame spietatamente sincero di noi stessi a questo riguardo, temo che avremo ognuno delle spiacevoli sorprese.
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Di tutto ciò si sono ben resi conto gli alti Spiriti che sono venuti a tentare l’ardua impresa di elevare moralmente e di risvegliare spiritualmente gli uomini, liberandoli dall’asservimento ai loro istinti.
Così il Buddha abbandonò ricchezze ed ogni possesso terreno, prima per ricercare la verità, poi, dopo aver raggiunta l’illuminazione, per aiutare gli uomini a liberarsi dal dolore, frutto del desiderio. E già molti secoli prima della venuta del Buddha, in India coloro che avevano raggiunto un certo livello spirituale solevano rinunciare a tutti i beni terreni e diventavano dei sannyasin, facendo vita di mendicanti.
Il Cristo ha più volte indicato con forti parole quale grave ostacolo siano le ricchezze alla vita spirituale, ed il suo atto più energico e combattivo di cui ci sia giunta notizia, fu quello di scacciare a colpi di fune coloro la cui avidità di denaro aveva portati a profanare coi loro traffici la santità del Tempio.
Questo atteggiamento contrario al denaro continuò attraverso i secoli nel Cristianesimo, fino a culminare nel drammatico e sublime gesto di S. Francesco, che rinunciò ad ogni avere e alle stesse vesti che portava, e celebrò giubilante le sue mistiche nozze con Madonna Povertà.

Di fronte a tali atteggiamenti, e ai modi di vita che ne derivano, sorgono spontanee in noi due domande:
1. Sono giusti e necessari dal punto di vista spirituale quegli atteggiamenti? È necessario per vivere spiritualmente condannare il denaro?
2. E se pur così fosse, ò attuabile un tal modo di vivere ai nostri tempi?



La risposta alla seconda domanda è facile. Già pochi decenni dopo la morte di S. Francesco le comunità francescane si accorsero che una vita regolare nei conventi non era praticamente possibile senza maneggiare denaro e senza possedere, sotto qualche forma, edifici e terreni. Ciò diede occasione a contrasti appassionati tra gli osservanti rigorosi della Regola primitiva e coloro che l’adattavano alle esigenze della vita pratica. Questi ultimi ebbero il sopravvento ed attualmente i religiosi francescani si servono di tutti i mezzi tecnici offerti dalla vita moderna, dalla stampa alla posta, dalla ferrovia, all’automobile ed all’aeroplano, pagandone regolarmente reso. Se dunque ciò fanno i figli di S. Francesco, tanto più siamo costretti a farlo noi laici, impigliati nelle mille maglie della vita economica, famigliare e sociale, intimamente inseriti – non solo per necessità, ma anche per scelta consapevole – nella vita del nostro tempo, convinti che ogni trasformazione di essa, in senso spirituale, non può essere fatta dal di fuori ed estraniandosene, bensì operando quale fermento entro la sua compagine.

Prendiamo ora in esame la prima e più difficile domanda.
In primo luogo occorre star bene in guardia contro le facili degenerazioni ed ipocrisie a cui può dar luogo il disprezzo del denaro. Esso può divenire una comoda maschera alla pigrizia, alla debolezza, alla viltà; può dar luogo al parassitismo individuale e collettivo. Ciò in realtà è spesso avvenuto, soprattutto in India, ove il clima, le condizioni di vita e la mentalità collettiva lo rende più facilmente attuabile.
Ma vi è una obbiezione più fondamentale contro l’atteggiamento su esposto verso il denaro. Essa è rappresentata da una concezione del tutto opposta, la quale essa pure si ispira a principi spirituali e religiosi. Secondo tale concezione, che pervade tutto l’Antico Testamento, le ricchezze e la prosperità sarebbero invece segni tangibili e sicuri del favore di Dio, premi di una condotta giusta e retta. Invece la povertà e le avversità sarebbero effetti di castigo Divino, o almeno il risultato di errori di pensiero, di sentimento e di condotta, sia individuali che collettivi.
Questa concezione è stata ripresa in pieno da alcune correnti religiose e spirituali moderne e ad essa si informa, più o meno consapevolmente, tutta la mentalità americana. In questa, successo pratico e merito e valore personale vengono ad identificarsi ; quello è la riprova ed il segno di questi.
Vediamo quali elementi di vero ci possano essere in questa veduta. Se Dio è buono, dicono in sostanza i sostenitori di essa, se Dio è Amore, se Dio desidera il bene dell’uomo, vuole che questi abbia una vita piena, gioiosa, e «ricca». Egli non può non volere che l’uomo faccia l’uso più ampio dei beni terreni che madre natura copiosamente gli elargisce.
Se vi è – ed evidentemente vi è – una gerarchia fra i regni della natura, è nell’ordine naturale e divino che i regni inferiori siano posti al giusto servizio dei regni superiori. Nei regni subumani avviene spontaneamente così: il regno minerale rende possibile l’esistenza della vita vegetale che di quello è materiata; ed il contributo, il «sacrificio» di entrambi quei regni è necessario alla manifestazione della vita animale.
Vi è un analogo rapporto fra i tre regni subumani e quello umano. La vita dell’uomo richiede in ampia misura il contributo degli altri tre regni. Gli evidenti eccessi ed abusi da parte dell’uomo non giustificano la condanna spirituale e la rinuncia pratica al retto uso.
Ma vi è di più: col retto uso l’uomo, non solo riceve benefici dagli altri regni, o, per usare una espressione più realistica, li sfrutta; ma egli dà molto ad essi in ricambio, elevandoli e raffinandoli in molti modi. Non si può forse dire che, in un certo senso, l’uomo glorifichi e sublimi le sostanze minerali traendo dalle oscurità della terra le gemme imprigionate nelle loro rozze ganghe e trasformandole in fulgidi brillanti, in rubini, topazi, zaffiri scintillanti? Non imita egli forse in qualche modo il potere di Dio nel trasformare le grevi inerti masse dei metalli in congegni delicatissimi, pulsanti di vita, vibranti e sapienti nel cogliere e scegliere e trasformare le più sottili energie dell’etere?
Ma l’opera benefica dell’uso si svolge in modo ancor più importante sui regni vegetale ed animale. Quale progresso ha fatto fare l’uomo alle piante e quanto le ha avvalorate, nel trasformare tanti arbusti selvatici dai frutti piccoli ed asprigni, in piante che offrono doni saporosi, apportatori di salute e di gioia. E non si può forse chiamare un tacito patto di amore quello che dall’unione fra la fatica dell’uomo e degli animali e le latenti virtù del grano fa produrre gli innumerevoli chicchi dorati che sfamano le moltitudini umane?
Ancor più chiara è l’azione che una parte dell’umanità – purtroppo non tutta – svolge a favore del regno animale. La domesticità degli animali per se stessa, cioè il loro allevamento da parte dell’uomo, anche se fatto da questi a scopi puramente utilitari, produce inevitabilmente un affinamento di quelle specie animali e la manifestazione dei germi di intelligenza che si sviluppano dalle radici dei loro istinti. Ma vi sono poi i rapporti di affetto e di comprensione fra il cavaliere e il suo cavallo, fra l’uomo ed il suo elefante o il suo cane, che si può dire quasi umanizzino in qualche misura quegli animali. Ciò, senza parlare di certi prodigi – discussi ma, in parte almeno, innegabili – di cui hanno dato prova alcuni animali educati con intensità ed ingegnosità speciali.
Tutto ciò mette in evidenza il lato positivo dell’uso dei beni materiali da parte dell’uomo, uso che implica qualche forma di possesso ed attivi scambi di quei beni fra uomini ed uomini; scambi che a loro volta rendono necessari dei mezzi per renderli più facili e rapidi.
E di tali mezzi il denaro è, se non il solo, certo il più pratico e, almeno nelle condizioni attuali, indispensabile.
Un altro elemento di vero nella concezione favorevole ai possessi è quello che, in molti casi, l’acquisto di quei beni è realmente frutto di operosità, di previdenza, di risparmio, di disciplina e di altre virtù morali. E per converso la povertà e gli insuccessi si possono non di rado attribuire o far risalire agli opposti difetti e vizi: pigrizia, imprevidenza, dissipazione, disordine.
D’altra parte è ovvio che non avviene sempre così; che anzi l’accumulo delle ricchezze è spesso effetto di avidità, di durezza di cuore, di assenza di scrupoli, e talvolta di abile frode e di furto legale.
Perciò è evidente come, non solo sia unilaterale e spesso non rispondente a verità, ma in un certo senso empia, l’identificazione fra favore divino, merito morale e successo economico, della quale è espressione tipica, e direi inconsciamente satirica, il modo di dire americano «That man is worth one million dollars» («Quell’uomo valeun milione di dollari»!). Come se una mente, un cuore, un’anima, si potesse commensurare con dei biglietti di banca o con dei titoli quotati nelle borse.
Evidentemente l’esame fatto sin qui dei rapporti fra denaro e spiritualità non ci ha condotto ad alcuna conclusione certa, anzi può averci resi più perplessi di prima. Ma non poteva non esserlo, poiché il problema, così come lo abbiamo posto, e come del resto viene spesso posto, é impostato male.
Si è tentato cioè un apprezzamento obiettivo del denaro e dei possessi materiali, si é cercato di appiccicare ad esso una etichetta di «cattivo» o di «buono», di biasimevole o di pregevole; ora questa valutazione obiettiva od esteriore, come ogni altra di tal genere (e quanto cosiddette «morali» non sono in realtà che etichettature siffatte!), sono fondamentalmente errate, perché basate sopra un equivoco, e quindi «irreali».*
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* Con ciò non vogliamo certo osar di criticare o sminuire in alcun modo l’atto sublime di S. Francesco, Esso non solo fu eroico, ma ebbe una efficacia benefica incalcolabile quale esempio e costituì una lezione vivente di distacco che fu uno dei colpi più poderosi che siano mai stati inferti al feroce idolo di Mammona. La rinuncia ad ogni possesso terreno va quindi apprezzata al suo giusto valore quale via di eccezione. Nostro intento era solo di mostrare come questa via non possa costituire una soluzione generale attuabile nella vita contemporanea.
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Abbandoniamo quindi risolutamente una simile impostazione e rifacciamoci daccapo, per una via del tutto diversa. Cominciamo col porre qualche «giusta designazione».
Che cosa è in realtà il denaro? Esso, come è noto, è un mezzo convenzionale creato dagli uomini per facilitare lo scambio di beni. Anzi per renderlo possibile nella vasta scala, nei modi complessi e con la crescente rapidità richiesti dalla vita contemporanea. Dunque il denaro è un semplice strumento materiale, o, se si vuole considerarlo da un punto di vista filosofico, un simbolo dei beni materiali. Perciò, per se stesso, non merita «ni cet excès d’honneur, ni cette indignité».
Quindi, le veementi condanne di esso sbagliano semplicemente indirizzo, e perciò è giusto che l’«ufficio competente» cioè la vera morale, lo respinga al «mittente», cioè all’uomo.
È nell’uomo, solo nell’animo dell’uomo che stanno verità ed errore, bene e male, merito e colpa. E se esaminiamo il problema da questo più giusto e profondo punto di vista soggettivo, possiamo constatare come gli errori e le colpe dell’uomo rispetto al denaro siano sostanzialmente due: l’una particolare al denaro stesso; l’altra riguardante, insieme ad esso, tutti i beni materiali.
Il primo malinteso, ed il primo errore di condotta, dipendono dalla tendenza generale degli uomini a scambiare il mezzo col fine, a identificare erroneamente lo strumento con ciò che esso produce e, in senso più generale, il simbolo con la realtà che rappresenta, la forma con la vita.
È un errore di cui si possono osservare continui e spesso comici esempi. Esso si manifesta in tutte le forme di collezionismo, divenuto fine a se stesso, ad esempio nella bibliomania, per la quale si giunge a preferire edizioni illeggibili, purché siano antiche ristampe moderne. Così il bibliomane non esita ad esclamare (come dice l’epigramma di Pons de Verdun):
«C’est elle! Dieu que je suis aise!
Oui, c’est la bonne édition;
Voilà bien, pages douze et seize,
Les deux fautes d’impression
Qui ne sont pas d.ans la mauvaise».
Ma nel caso del denaro non si tratta di una innocua e più o meno ridicola mania; si tratta di sordide manifestazioni di avarizia, che, parlando simbolicamente, fanno «perder l’anima».
Si tratta di violente cupidigie che non si arrestano dinanzi ad alcuna colpa, dinanzi ad alcun crimine, da quelli sanguinosi dell’omicida per rapina, a quelli più raffinati, più pericolosi e più ignobili di certi fabbricanti di cannoni che per vender lautamente la loro merce non esitano a fomentare guerre fra i popoli.
Su questo tema, sul significato simbolico e sugli effetti nefasti dell’oro, Hermann Keyserling ha detto cose assai forti e degne di esser meditate.
«L’oro è il simbolo del valore, ed ogni valore è di essenza spirituale… Hanno certo ragione gli archeologi che riferiscono questo trasferimento di senso all’immagine primordiale che l’oro era il sole liquido. Il sole è l’immagine originaria del principio creatore divino e quindi spirituale… Questa immagine animava, allo stato puro, il culto dell’oro da parte degli Incas per i quali esso non aveva alcun significato economico… Ma all’idea che l’oro è il sole liquido si aggiunge tosto, colà ove questo metallo assume un significato pratico, un secondo motivo che rafforza la posizione privilegiata del valore dell’oro. È un puro miracolo, del tutto incomprensibile, in base agli istinti primordiali, che si possano scambiare con l’oro altri valori e soprattutto delle vite umane. Si ricordi lo stupore inaudito di quegli Incas quando videro per la prima volta questa possibilità attuata dagli Spagnoli.»
Così l’oro simboleggia, oltre all’idea del sole dispensatore di vita, prototipo di ciò che è sopra terreno e quindi spirituale e trascendente, il vero potere magico ed è per effetto di una resurrezione di questa credenza originaria che agli Stati Uniti il fatto di essere milionario trasforma un individuo qualunque in un grand’uomo.
Ciò nonostante l’oro è un minerale. Il fatto che un minerale venga considerato come valore supremo fa si che la coscienza del valore si adatti necessariamente alle norme di ciò che è inanimato.
Così si produce un trasferimento inverso: il risultato finale è che l’adorazione dell’oro lo rende la misura di ogni valore. Ciò produce il circolo che è stato chiamato la maledizione dell’oro. Poiché da allora in poi la forza determinante è ciò che non è vivo o, cioè, è precedente alla vita. La Fame originaria è insaziabile, ma, sottomessa alla Legge della vita, essa trova il suo limite normale. Ma la fame dell’oro è essenzialmente insaziabile. La voracità trova il suo limite nel disgusto, la brama dell’alcool nell’abbrutimento… l’insaziabilità sessuale nell’impotenza. Ma come la fame dell’oro potrebbe essere mai saziata? Non vi è per essa alcun limite possibile… così la brama dell’oro diviene necessariamente illimitata come l’universo. E poiché tutto dipende solo dalla quantità, e dalla quantità di qualcosa di inanimato, l’anima accetta inevitabilmente la legge della morta quantità.
Non solo essa perde la sua umanità, essa perde anche la sua vita animale e si inizia una sua mineralizzazione. Da . ciò la fredda crudeltà degli spagnoli, che pure hanno una natura sì calda, ai tempi della loro corsa all’oro. Da ciò il freddo calcolo deifinanzieri moderni. Il freddo è la temperatura del metallo». (Méditations Sud-Américaines,pp. 50-51).
Perciò il primo atto spirituale che dobbiamo compiere è quello di liberarci dalla sopravalutazione del mezzo, dello strumento di possesso e di scambio dei beni terreni: il denaro.
Rifiutiamoci risolutamente dall’offrir più oltre sacrifici sull’altare di questo falso nume, liberiamoci dal fascino esercitato da questo idolo, e riduciamolo con chiara visione, con calma freddezza, a ciò che è in realtà: un semplice strumento, un artifiziocomodo, un’utile convenzione.
Eliminato così questo primo ostacolo, possiamo passare a risolvere il problema sostanziale: quello dei nostri rapporti con l’insieme dei beni materiali, di cui il denaro non è che il simbolo, o un sostituto temporaneo.
Abbiamo visto come i beni materiali – siano essi cibo, vesti, abitazioni, strumenti di lavoro, oggetti di bellezza – sono in sostanza composti di materiali tratti dai tre regni della natura ed usati, sia nel loro stato naturale, sia, più spesso, dopo essere stati trasformati ed adattati dall’uomo. In essi non vi può esser dunque alcun «male» intrinseco. Dal punto di vista naturalistico, sono delle cose; dal punto di vista religioso, sono doni di Dio.
Dunque il loro significato per noi, ed i loro effetti benefici o malefici, dipendono dal nostro atteggiamento interiore verso di essi, e dall’uso che, con libera scelta, possiamo e vogliamo farne.
Questo riconoscimento fondamentale porta ad una serie di chiarimenti di grande importanza spirituale e pratica.
Anzitutto risulta evidente che la mancanza di possessi esteriori non risolve in alcun modo il problema. A parte tutte le limitazioni e le schiavitù che la povertà impone nella vita moderna, se un «povero» desidera appassionatamente i beni materiali, se non pensa ad altro che a procurarseli, se è inasprito e roso da risentimento contro coloro che li hanno, egli psicologicamente è loro schiavo.
Questo non vuol dire che non sia lecito a lui di cercar attivamente di migliorare le proprie condizioni: anzi, spesso è suo dovere farlo. Ma egli può farlo senza lasciarsene tutto assorbire ed ossessionare, mantenendo la propria libertà interiore e la propria dignità.
Invece un ricco il quale fosse moralmente distaccato dai suoi possessi, che se ne sentisse interiormente del tutto libero, non verrebbe da essi diminuito spiritualmente in alcun modo; sarebbe psicologicamente un «povero».
Il Cristo, con la sua divina saggezza, vide appieno questa verità e la espresse nella prima delle beatitudini.
«Beati i poveri in ispirito, poiché il Regno de’ Cieli è loro» (Matt. 5-2I). Poveri in spirito non vuol dire poveri di spiritocome qualcuno ha frainteso; ma appunto liberi da attaccamento alle ricchezze, anzi, come ben dice il padre Gratry, «da tutte le forme e da tutti i possessi dell’egoismo».(Commentaire sur l’Evangile selon S. Matthieu, p. 79).
Invero chi è libero dalla miseria della bramosia, delle preoccupazioni, degli attaccamenti, chi fruisce della «santa libertà dei Figli di Dio», possiede veramente fin d’ora il Regno de’ Cieli, è il vero «ricco».
Certo, per saper così dominare i beni materiali, per resistere alle continue tentazioni cui danno occasione – tentazioni di sensualità, di mollezza, di pigrizia, di egoismo di ogni sorta – occorre un animo di tempra particolare, occorre saper vivere in un clima spirituale eccezionale; costituisce insomma la vera prova del fuoco della libertà interiore, del distacco, dello «spirito di povertà».
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Ma neppure questa povertà interiore risolve completamente il problema. Quando l’uomo si è messo a posto con la propria coscienza, e quindi in un certo senso con Dio, egli deve anche mettersi a posto con i propri simili, con i quali è intessuto da una trama di rapporti morali e pratici intimi ed indissolubili. Perciò alla liberazione interiore deve seguire il retto uso dei beni posseduti. Questo a sua volta solleva due problemi:
a) quello del retto uso individuale;
b) quello del retto uso collettivo.
La base del retto uso individuale sta nella rinuncia all’idea stessa del possesso quale un diritto personale. La proprietà giuridica è cosa puramente umana, che ha le sue giustificazioni psicologiche e pratiche, dato il livello medio di sviluppo morale dell’umanità. L’istinto di proprietà è una forza primordiale di cui bisogna tener il debito conto: non si può ucciderla o reprimerla violentemente. Perciò ogni tentativo di abolizione esteriore della proprietà è – a parte ogni altra considerazione – antipsicologico e perciò destinato a fallire. Ma in sede spirituale la proprietà assume aspetto e significato assai diversi. Essa non è più un diritto personale, bensì una responsabilità, verso Dio e verso gli uomini.
Se si accoglie l’alta concezione religiosa cristiana della vita, si deve riconoscere che tutto viene da Dio, anzi, tutto è dato da Lui, che quindi in realtà tutto è Suo. Egli è l’unico ed universale «Proprietario».
Chi poi aderisse alla concezione più metafisica che la Vita è inscindibilmente una, che solo il Supremo, l’Assoluto, ha reale esistenza e che tutte le manifestazioni individuali non sono che effimere parvenze (come ad esempio sostiene la filosofia Vedanta) tanto meno potrebbe ammettere che la proprietà personale possa avere una base spirituale.
Da un punto di vista spirituale un uomo può considerarsi solo come depositario, amministratore, «fiduciario» dei beni materiali di cui abbia in qualunque modo ottenuto il possesso giuridico. Quei beni costituiscono per lui una vera e propria prova alla quale è sottoposto, una responsabilità, spirituale, morale e sociale ben ardua a sostenere degnamente.
Questo linguaggio è un po’… insolito in questi tempi e può sembrare espressione di idealismo astratto. Credo invece di poter mostrare che esso ha un valore pratico immediato ed assai maggiore di quanto sembri a prima vista.
Anzitutto coloro che hanno una sensibilità morale un po’ affinata giungono spontaneamente alla conclusione suaccennata. Si ricordino ad esempio i nobilissimi scrupoli che turbarono l’animo di Antonio Fogazzaro quando venne in possesso di beni ereditari. Essi sono stati resi noti dal Gallarati Scotti nella sua Vita di A. Fogazzaro (p. 162), documento di alto valore umano e spirituale. Si ricordi anche il doloroso travaglio in cui si dibatté per gran parte della sua vita Leone Tolstoi.
La concezione di essere solo dei depositari delle ricchezze, e dei “servitori sociali” – sia nell’acquistarle mediante la produzione o la distribuzione di beni utili alla comunità, sia nel distribuirli poi a questa mediante munifiche elargizioni per scopi umanitari – è stata adottata e, quel che più conta, attuata da un certo numero degli uomini più pratici, realisti e realizzatori, del mondo contemporaneo.
Sono ben noti gli esempi di disinteresse, di austerità di vita personale, di lavoro assiduo, inspirato ad un ideale di servizio sociale, di un Edison o di un Ford. E nella nostra Roma è sorto recentemente l’«Istituto Superiore di Odontoiatria G. Eastman», il quale è la visibile prova che colui che forse più di ogni altro ebbe il merito di diffondere l’uso della fotografia nel mondo, Eastman, proprietario della Kodak, usò una parte cospicua delle proprie ricchezze a scopi umanitari. E non pochi sono gli industriali e gli uomini di affari americani che pensano ed agiscono così.
Desidero però, soffermarmi su di una nobilissima figura nostra, italiana, di consapevole “servitore spirituale”: quella di uomo vissuto a Roma, che da pochi anni ci ha lasciati: Luigi Valli.
Le ricchezze avute non hanno costituito per lui alcun allettamento alla «vita comoda». Egli divideva le sue giornate operose fra gli studi filosofici e letterari, svolti con ingegno acuto ed originale, le assidue cure volte a bonificare e a mettere in valore le terre a lui pervenute dal padre, e l’instancabile adempimento di compiti civili e nazionali. Egli, pur sapendosi malato di cuore, svolse un faticoso viaggio di propaganda culturale attraverso l’Europa, e poi cadde, da buon operaio, nel suo campo di lavoro prediletto, mentre parlava pubblicamente di Dante, a Terni.
Luigi Valli si pose con piena sincerità il problema della legittimità spirituale dei suoi possedimenti terreni di fronte alla soluzione francescana, e la risposta che egli diede a se stesso e stata da lui esposta, in modo mirabile per limpidezza di pensiero e bellezza poetica, in una di quelle sue alate liriche spirituali che meriterebbero di esser molto più conosciute ed apprezzate.
Credo far cosa gradita riproducendola qui (vedi Colloquio con frate Francesco).
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Dunque il vivere con distacco interiore dai beni posseduti, considerandosi solo quali a “amministratori responsabili”, non è una pia aspirazione idealistica, bensì qualcosa di cui vi sono luminosi esempi attuali. Ma, come ho accennato, vi è una ragione precisa per cui tali esempi non dovrebbero restare eccezionali, ma moltiplicarsi rapidamente.
L’oscuro e potente fermento che agita le masse umane, le quali forse confusamente intravedono questa verità, le rende insofferenti e ribelli contro l’antica concezione individualistica della proprietà, duale diritto assoluto del tutto irresponsabile verso la collettività, e contro quella liberalistica dello Stato quale indifferente e neutrale protettore di quei diritti individuali. E per conseguenza esse accolgono con malanimo ogni aiuto che assuma la forma di «carità» o di beneficenza implicanti una superiorità ed una magnanimità in chi dona ed un obbligo di apprezzamento e di gratitudine in chi riceve.
Orbene, finché non saranno compiuti, anzi mentre si stanno compiendo, in modo necessariamente graduale, i cambiamenti, sociali di cui diremo più oltre, l’unico modo per frenare e disciplinare le impazienze della masse è quello che coloro che possiedono beni materiali non se ne arroghino un diritto incondizionato, ma dimostrino in due modi di volerne e saperne fare degno uso.
In primo luogo limitandone gli sperperi egoistici e voluttuari, irritanti per coloro che mancano dello stretto necessario, o di ciò che viene via via considerato necessario per un tenore di vita meno misero e più consono ai progressi della tecnica moderna.
In secondo luogo mettendo in valore le proprie ricchezze, in modo che producano e moltiplichino i beni utili agli altri uomini.
A questo proposito, pur apprezzando debitamente coloro che, come Ford, Eastmann e molti altri hanno contribuito ad elevare il tenore di vita e a migliorare la salute della razza umana, conviene affermare che l’uso più benefico delle ricchezze è quello di dedicarle all’elevazione morale e spirituale degli uomini.
Questo uso ha infatti un duplice valore. Uno che si potrebbe chiamare negativo – ma che è in realtà molto positivo – e che consiste nel combattere le cause prime, le radici dei mali d’ogni genere, compresi quelli economici, che travagliano l’umanità. Ogni uomo rigenerato interiormente costituisce un pericolo di meno ed un elemento attivo di bene di più nella società.
L’altro, diretto, che è il largire agli uomini le ricchezze più nobili, più permanenti, apportatrici di più alto conforto e di più pura e vivida gioia.
Numerosi e facili sono i modi nei quali un ricco di buona volontà – ed anche chi abbia un po’ di superfluo o sia disposto a rinunciare a qualche agio o divertimento – possono usare i propri mezzi per il bene spirituale degli uomini. Basti ricordare, ad esempio, che i buoni libri sono veri “accumulatori” di energie spirituali. Un libro ha molte volte trasformato una vita umana.
E un libro costa poche lire!
* * *
Dobbiamo infine dare un rapido accenno dell’aspetto nazionale e sociale della questione. Quand’anche la maggioranza dei ricchi accogliesse entro breve tempo le idee che abbiamo esposte e si considerasse solo amministratrice dei beni di Dio, – e nessuno fra noi è così ingenuo da sperarlo! – il problema non sarebbe ancora risolto.
Nella complessa vita moderna l’azione individuale non basta; vi sono problemi di produzione e di distribuzione che possono essere risolti solo collettivamente, e più precisamente anzitutto da un organismo nazionale, da uno Stato che intervenga in doppio modo:
1. organizzando tecnicamente produzione e distribuzione per il miglior rendimento e per il bene di tutti, risolvendo in modo organico ed unitario i difficili problemi delle materie prime, del ritmo produttivo, del finanziamento, degli scambi, ecc.;
2. eliminando i disastrosi conflitti fra le classi sociali coi loro scioperi e con le loro serrate, con le rivolte e le repressioni, instaurando un nuovo e saldo regime di giustizia sociale e di collaborazione di classi.
Vi è infine il problema mondiale della ricchezza e della distribuzione dei beni. Le soluzioni nazionali, che sono le più urgenti ed imprescindibili, non possono da sole risolvere quei problemi in modo pieno e soddisfacente.
Gli scambi di beni sono necessari: l’Inghilterra e la Svezia non potranno mai produrre arance e limoni, né la Germania trovare nel proprio suolo tutte le materie prime di cui ha bisogno. Si dovrà dunque arrivare ad una organizzazione mondiale, basata sugli stessi principi, spirituali e realistici insieme, a cui si ispirano le soluzioni individuali e nazionali.
Solo con un senso di più alta solidarietà umana si potranno evitare fatti vergognosi, come quello di distruggere il grano in un luogo mentre si patisce la fame in un altro. Solo superando, o almeno contenendo entro certi limiti – anche nel campo collettivo, oltre che in quello individuale – gli istinti della Paura e dell’Avidità originarie, si potranno eliminare le corse agli armamenti alle quali assistiamo.
Tutto questo meriterebbe ben più ampio svolgimento, non consentito né dallo spazio, né dalla mia competenza. Mi limito quindi a questo rapido accenno sintetico.
Ma, se non mi inganno, quanto è stato esposto basta per dimostrare che il problema del, denaro e dei beni materiali è un problema essenzialmente spirituale. Perciò solo alla luce dello Spirito, e con metodi fondamentalmente spirituali, esso può trovare soluzioni pratiche, in cui il bene individuale e il bene collettivo si contemperino in quella armonia dinamica, in quella sintesi sempre più ampia, che è legge fondamentale della Vita.

Fonte http://cosmosdream.it/cosmos/archives/5370
http://divinetools-raja.blogspot.it/ La Via del Ritorno... a Casa

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