Hara - La forza dell'energia originaria

Hara - La forza dell'energia originaria (Massimo Beggio)



I

In un convegno a Verona del Settembre 2002 dal titolo “Curare e guarire come Via di conoscenza” introducevo alcune riflessioni sul tema di Hara citando una frase circa la malattia e la guarigione tratta da un libro di un autore tedesco, Karlfried Von Durckheim. La frase in questione dice: “Non vi è malato la cui guarigione non sia ostacolata anche da una intima tensione o contrazione. Del pari, non vi è guarigione che non sia agevolata dal risolversi di tali nodi. Proprio nella misura in cui tensioni siffatte sono connesse con la paura di un Io preoccupato o protervo, esse si sciolgono quando l’uomo apprende l’arte di mettere da parte l’Io e di affidarsi a quelle forze più profonde alle quali l’Hara certamente lo apre.” Hara è uno di quei termini piuttosto usati nel mondo delle discipline di origine giapponese (Shiatsu, arti marziali ed altre cose ancora). Nei corsi di Shiatsu, tanto per fare un esempio, gli allievi sono invitati ripetutamente all’uso di Hara nella tecnica di pressione. Ritengo però che, in genere, non sia abbastanza chiaro a cosa ci si riferisce quando si fa uso di questa parola.Credo che molti, tra i cultori di queste ‘arti’ di origine giapponese, ritengano che l’idea di Hara si esaurisca nell’ambito delle tecniche specifiche delle loro discipline e che non possa avere attinenza con nient’altro. Quindi che si tratti di qualcosa che riguarda solo ed esclusivamente quel loro mondo particolare.
Pochi forse pensano che l’essere in contatto con il proprio Hara  possa andare ben oltre la specificità della loro ‘arte’ e possa avere il significato di un atteggiamento più ampio che coinvolge il nostro modo di essere e di relazionarci con la vita.
Nella veste di insegnante di Shiatsu, quando mi capita l’occasione di parlare dell’Hara  mi piace fare qualche esempio per aiutare a comprendere come questo atteggiamento trova  applicazione anche nella quotidianità di molti  piccoli gesti.
Spiego, ad esempio, che c’è sicuramente  un ‘modo Hara’ di stringere la mano a una persona, oppure di abbracciarla, o di porgerle un oggetto, di servirle una tazza di thè (o un piatto di spaghetti, tanto per essere meno orientali). Credo anche che ci sia un ‘modo Hara’ di sferrare un pugno o di dare una carezza.
E penso che questa modalità permetta di rapportarci con l’altro in un modo molto più autentico e più sentito. E’ come se, nel rapporto con l’altra persona, manifestassimo una ‘presenza’ ed  una qualità  di gran lunga superiori allo standard abitudinario.
Questo ‘modo Hara’ di essere e di rapportarsi è un miscuglio di più cose: comprende il manifestare  una certa ‘energia’ nei gesti che facciamo e comprende anche una certa ‘intenzionalità’ e una certa ‘determinazione’ nel nostro agire.
Questo dell’agire con Hara è un modo che si colloca oltre le parole e oltre la mente razionale e che l’altra persona però riesce a cogliere molto bene. A volte, in quella stessa persona, capita di leggere addirittura un moto di stupore. Forse perché l’atteggiamento con il quale ci proponiamo non è troppo usuale nella vita di relazione e l’altro ne rimane quasi turbato (e in qualche modo anche affascinato).
Nell’ambito della pratica dello Shiatsu, questo modo di essere corrisponde a quel qualcosa in più che possiamo sentire in una pressione e che la riempie di quella qualità che la rende di molto superiore rispetto ad un’altra.
Questi sono però solo alcuni aspetti abbastanza marginali. Continuando nel nostro discorso vedremo che l’essere in contatto con Hara può significare molto di più di quanto abbiamo finora detto.
Come ben sappiamo la parola è di origine giapponese. Il modo come questa parola viene usata in alcune espressioni della lingua giapponese è molto interessante ai fini del discorso che stiamo facendo.
Una di queste espressioni, per esempio, è la seguente: “Hara no aru hito”, che letteralmente tradotta significa “L’uomo che possiede Hara”. Il senso è quello di indicare colui (o colei) che costantemente nella propria vita è in una dimensione di collegamento con il proprio Hara.
In una traduzione ancora più letterale la frase in questione diventa: “L’uomo che possiede un ventre”.Detto questo possiamo allora considerare la parola ‘ventre’ (o anche addome, o pancia ecc.) come una traduzione possibile della parola giapponese Hara.E’ evidente però che, poiché la pancia è un bene di tutti, il significato che i giapponesi vogliono dare a questo ‘Ventre’ va ben oltre questa particolare zona del nostro corpo. Anche se, lo vedremo, tutto l’insieme dei concetti legati alla parola Hara trova poi un suo riferimento ed una sua collocazione ‘anatomica’ proprio in zona addome, esattamente in un’area interna e profonda che si trova collocata a circa quattro dita sotto l’ombelico.Il nostro autore tedesco, che ho citato in apertura, è un esperto di cose giapponesi ed ha dedicato un intero libro su questo argomento (Hara: il centro vitale dell’uomo secondo lo Zen – Edizioni Mediterranee).
In questo libro troviamo un commento che può aiutarci a capire meglio questa espressione giapponese. Egli scrive: “…il significato complessivo di questa espressione (Hara no aru hito) è ‘l’uomo che possiede un centro’….. Colui che manca di un centro perde facilmente l’equilibrio, mentre chi lo ha lo conserva sempre. In più, in lui vi è qualcosa di calmo e che tutto abbraccia. Ha come una ‘ampiezza umana’. L’espressione Hara no aru hito significa anche questo, significa un uomo che ha una grandezza d’animo, che è generoso e che ha ampie vedute…. L’uomo che ha un centro giudica in modo sereno ed equilibrato, ha il senso di ciò che è importante e di ciò che non lo è. Lascia tranquillamente che la realtà gli si avvicini, nulla lo spaventa, nulla altera la sua calma prontezza ad intervenire in modo adeguato. Non si tratta di insensibilità ma dell’effetto di una data costituzione interiore da lui realizzata, caratterizzata da una elasticità ‘in profondità’ che gli permette di prendere posizione nel modo giusto di fronte ad ogni situazione, con naturalezza e con calma…. In un dato frangente sa quel che deve fare, non lasciando che nulla lo sconvolga.”
Diversamente, continua Von Durckheim, “…‘l’uomo che non possiede un ventre’ (che non possiede Hara) è esattamente l’opposto di tutto ciò. Gli manca una misura divenuta per lui una specie di seconda natura. Così egli reagisce a caso, in un modo puramente soggettivo, non distinguendo ciò che è essenziale da ciò che non lo è. Il suo giudizio non si basa sulla realtà ma risente di elementi contingenti personali, come lo stato d’animo, l’umore, lo stato dei suoi nervi. Si spaventa ed è nervoso, non perché sia particolarmente sensibile o i suoi nervi non siano a posto ma perché gli manca l’asse che gli permetterebbe di ‘non uscire dal proprio centro’ e di assumere in ogni situazione un atteggiamento adeguato agli stimoli che riceve e conforme alla realtà. E’ anche un individuo molto strutturato e rigido, mosso unicamente dalla testa oppure dall’emotività. Di fronte ad una situazione grave reagisce con ottusa ostinatezza, o resta senz’altro disorientato.”
In questa visione Hara è quel qualcosa che ‘centra’ un individuo e che gli conferisce un equilibrio nella vita. Un equilibrio a tutto campo: sia nell’aspetto propriamente fisico (Hara corrisponde anche al nostro ‘baricentro’, cioè a quel punto in cui si concentra tutta la massa del nostro corpo) che in tutte le situazioni della vita nelle quali possiamo trovarci, e nelle quali è importante essere ‘centrati’ perchè possano venire affrontate nel modo più appropriato.
Questa condizione, spiega ancora Von Durckheim, “…solo in parte è una disposizione congenita; essa è soprattutto il risultato di una esercitazione e di una disciplina continue, quindi il frutto di uno sviluppo personale di cui ognuno di noi ha la responsabilità.” Quindi suggerisce che anche ciascuno di noi, allenandosi ed esercitandosi, ha la possibilità di fare proprio questo modo di essere.
Mario Vatrini, nel suo libro “Strategie di Shiatsu”, dedica un breve capitolo all’argomento che stiamo affrontando. Il titolo è ‘Haragei – l’arte dell’addome’. Egli scrive: “Haragei equivale al saper risolvere un problema secondo un approccio irrazionale….. Per i Giapponesi l’addome è la sede dell’istinto, essi sono individui ipersensibilizzati a giudicare i pensieri e gli stati d’animo altrui non tanto per i contenuti verbali ma per le sensazioni che a loro volta ne ricavano. Ne consegue che le loro relazioni interpersonali sono fondamentalmente intuitive e viscerali, piuttosto che logiche o razionali.….Allo Shiatsuka (che vuole rifarsi all’uso di Hara) viene chiesto di escludere quegli schemi di pensiero e di comportamento a cui abitualmente si riferisce, per contare su qualcosa che usa di rado: la totalità delle sue percezioni.”
L’invito è quindi quello di abbandonare gli aspetti più logici e razionali del nostro comportamento al fine di stabilire una condizione che vada oltre questi soli aspetti, e che Vatrini definisce la totalità delle nostre percezioni.
Il rapporto che viene ad essere stabilito (mantenendo uno stato di coscienza vigile nella ‘totalità delle nostre percezioni’) si colloca in quella particolare condizione che i giapponesi chiamano Mushin (in cinese Wu Xin). In questo caso il significato più letterale di queste espressioni è ‘assenza di mente razionale’. Cioè una condizione dove tutto ‘avviene’ (dove tutto è percepito, elaborato e vissuto) in una dimensione che non si ferma al solo aspetto della razionalità.
Corrisponde a ciò che viene definito ‘il pensare e l’agire con la pancia’ che sembra essere, per quel che finora si è detto, una caratteristica particolare del popolo giapponese ma che in realtà non è del tutto assente, almeno come concetto, anche dalle nostre parti. Al punto che anche da noi, nel nostro linguaggio, il termine ‘viscerale’ sta ad indicare esattamente questo stesso modo ‘totale’ e profondo di partecipare e vivere le cose.
Una madre, ad esempio, in qualsiasi parte del mondo, vive il proprio figlio in modo viscerale. Per dire di un modo ampio e totale che va oltre la sola razionalità e che comprende corpo, mente e cuore.
Questa è una condizione che possiamo riconoscere non solo ad una madre nei confronti del proprio figlio ma che possiamo trovare anche tra due amici, o tra due persone che si amano. E’ quindi una condizione che può esistere tra tutte le persone, purchè il rapporto sia profondo, purchè  sia cercato, voluto e mantenuto in profondità.
Riprendendo le parole di Vatrini, possiamo pertanto affermare che Hara non è solo, per l’individuo, ‘un centro’ che lo sostiene, ma è anche un ‘centro di elaborazione’ che gli permette una comprensione più ampia ed ‘istintiva’ di tutta la realtà che lo circonda.
In molte opere della cultura giapponese (romanzi, film ecc.) questa visione di Hara viene spesso riproposta ed evidenziata. Non si pensi però che questa condizione sia una caratteristica esclusiva di quel popolo. Se è certamente difficile, per l’uomo di oggi, vivere questa dimensione, è vero però che questa è la condizione che in qualsiasi parte del mondo ha sempre vissuto il guerriero, o il cacciatore che si muoveva nella foresta e che sapeva bene di doversi muovere nella totalità delle proprie percezioni, correndo il rischio, diversamente, di passare da cacciatore a preda e di perdere la propria vita.
Tornando allo Shiatsu, l’uso di Hara non è solo quel qualcosa che favorisce una qualità diversa nella pressione. Permette altre cose ancora. Ad esempio, muovendoci nella totalità delle nostre percezioni, possiamo sentire l’energia che scorre in un canale, la collocazione esatta di un punto, cogliere una condizione energetica (vuoto/pieno ecc.) ed altro ancora.

 

II


Mario Vatrini, nel suo libro, afferma che esiste qualche divergenza sull’esatta posizione di Hara. Ne suggerisce poi la collocazione in una zona (interna) compresa tra due e quattro dita sotto l’ombelico. Per chi ha qualche familiarità con gli agopunti della Medicina Tradizionale Cinese diremo che corrisponde alla zona  compresa tra due punti dislocati sul Meridiano energetico di Vaso Concezione. Essi sono Qi Hai (VC 6: Mare del Qi – Kikai in giapponese) e Guan Yuan (VC 4: Barriera, o passaggio, o cancello, della sorgente originaria – Kangen in giapponese. Punto Mu di Intestino Tenue).
La zona è quella. Forse ‘Guan Yuan’ (il 4 di VC, a quattro dita dall’ombelico) è la collocazione più esatta. Vedremo infatti che anche nella lettura degli ideogrammi di Hara e di Guan Yuan (o Kangen) sono presenti le maggiori affinità.
Prima di passare ad analizzare le caratteristiche energetiche di questi punti è interessante prendere in esame proprio gli ideogrammi che li rappresentano. Come sempre, quando si vanno a leggere ed interpretare in tutte le loro sfumature, permettono di comprendere molte cose.
Non essendo un esperto ho chiesto la collaborazione di Padre Luciano Mazzocchi, che è stato missionario in Giappone per circa 20 anni ed ha avuto modo di studiarne la lingua, specializzandosi anche nello studio degli ideogrammi cinesi (che sono la base della scrittura giapponese, pur se con qualche differenza nel modo di essere pronunciati).
Padre Mazzocchi mi ha fatto pervenire due ideogrammi che esprimono entrambi Hara, pur se con qualche differenza tra di loro. Cominciamo con l’esaminare il primo:      


Hara = ventre

Questo ideogramma, che si legge Hara (ma anche ‘Fuku’ in una pronuncia più simile a quella cinese) ha il significato di ‘ventre’ (addome, pancia).
E’ composto di più segni ideografici: a sinistra un radicale che significa ‘carne’, o anche ‘un corpo fatto di carne’ (per indicare che si tratta di un concetto che è poi ‘concretizzato’ in un corpo umano).
L’ideogramma di destra è composto di due segni: quello superiore indica un sole che sorge, quello inferiore una mano che si apre. Questi due segni (nel loro essere insieme) stanno ad indicare il rinnovarsi della vita.
Quindi, in questo primo ideogramma, Hara è Ventre inteso come quella zona del corpo dove l’energia della vita si rigenera e si rinnova. E’ da intendere proprio come  quella parte del nostro corpo (la zona addominale) che è sede di tutti quei processi indispensabili al mantenimento della nostra esistenza.
Il sole che sorge sta ad indicare il ripetersi ed il rinnovarsi ogni giorno del ciclo vitale, mentre la mano che si apre può forse avere il significato dell’accogliere questo continuo rigenerarsi. Il tutto come un fatto molto concreto in un corpo umano.
Analizziamo ora invece l’altro ideogramma la cui lettura è sempre Hara ma scritto con segni diversi:


Hara = radura – distesa incolta

Questo ideogramma si legge sempre Hara ma assume significati diversi. In questo caso troviamo espressa una ‘radura’, una distesa incolta e un po’ selvatica. “Un luogo selvatico che accoglie e protegge tante forme di vita animale e vegetale” suggerisce Padre Mazzocchi.
Aggiunge inoltre che sta anche ad indicare “…quelle radure dove cominciano a formarsi quei ruscelli che poi vanno ad irrorare i campi”. Credo possano essere intesi i cosiddetti ‘fontanili’ (come vengono chiamati dai nostri contadini), quelle sorgenti d’acqua di pianura importantissime per l’irrigazione dei campi, chiamate anche ‘risorgive’.
In questo secondo ideogramma, pertanto, con l’idea delle ‘risorgive’, troviamo il concetto di ‘Sorgente’. Infatti l’altra lettura (in cinese ‘nipponizzato’) di questo ideogramma è ‘Gen’ (corrispondente al cinese ‘Yuan’) il cui significato è proprio ‘Sorgente’ (o anche ‘Fonte Originaria’, ‘Origine’ecc.).
Troviamo poi questo ideogramma contenuto nel nome cinese di VC 4 (Guan Yuan: ‘Barriera dell’energia originaria’ o ‘Cancello della sorgente originaria’ ecc.) dove si accompagna all’ideogramma ‘Guan’ (Kan in giapponese – Kangen è sempre VC 4) che indica appunto una barriera, un cancello o un passaggio obbligato.
Il tutto ci riporta quindi, anche concettualmente, a questo punto che è situato circa quattro dita sotto l’ombelico e che forse possiamo considerare proprio come il centro di quella zona del nostro corpo legata ad Hara.
Proviamo ora ad individuare le caratteristiche energetiche di questo punto e di altri punti presenti nella stessa zona analizzando quanto ne dicono i testi della Medicina Tradizionale Cinese.
Nei testi che ho avuto modo di consultare Guan Yuan viene dato come importante punto di riunione dei tre Canali Yin del basso (Milza, Fegato e Rene). Ha quindi un grande rapporto con lo Yin, cosa che gli torna anche abbastanza naturale essendo Vaso Concezione il ‘Mare dello Yin’ ed avendo questo Canale Straordinario la caratteristica del ‘prendersi carico’ della vita.
Il campo d’azione di questo punto è molto ampio e importante. Secondo Giovanni Maciocia (Fondamenti di M.T.C. – Ed. Ambrosiana): “…nutre lo Yin ed il Sangue, tonifica (e giova in generale) la Yuan Qi (energia originaria), tonifica i Reni, rafforza lo Yang, regola l’Utero, calma lo Shen e radica lo Hun.” Questa influenza ‘sedativa’ sugli aspetti spirituali di Cuore e Fegato è naturalmente dovuta anche alla sua forte azione sullo Yin, in una logica di equilibrio Yin/Yang. Risponde quindi, come azione generale, a tutto quanto ci potevamo aspettare, dato il suo rapporto con questa realtà molto profonda legata alle energie ‘originarie’.
Secondo un testo americano (Grasping the Wind) questo punto è “…la via di passaggio del Qi originario, l’incontro dello Yin e dello Yang originari, ed il posto dove il Qi originario è immagazzinato e conservato…. E il suo nome corrisponde al tentativo di esprimere tutte queste idee.”
Sempre lo stesso testo propone anche un elenco di ‘nomi alternativi’ che sono a volte usati per definire VC 4. Tra i molti, che vanno da ‘Cancello della vita’ a ‘Porta del bambino’ (per sottolinearne le funzioni ed i molteplici rapporti, ad es. con l’Utero), una denominazione importante è ‘Dan Dien’ o ‘Campo del Cinabro’. (Il punto infatti corrisponde anche al Dan Dien Inferiore).
Anche nella tradizione dello Yoga la zona è importante. Per qualche autore corrisponde alla zona del 3° Chakra (cfr. Jean-Michel Varenne ‘Lo Yoga’ – SugarCo Ed., che posiziona questo Chakra due dita sotto l’ombelico). Il nome del 3° Chakra è ‘Manipura Chakra’, che tradotto significa ‘La Città dei Gioielli’.
Manipura è ritenuto un centro importante per il risveglio della Shakti (Energia). Il nome ‘Città dei Gioielli’ sta ad indicare l’importanza di questo Centro, dal quale si dice abbia inizio il cammino evolutivo dell’uomo verso i ‘piani alti’ della coscienza. (Nei primi due Centri sottostanti Manipura sono invece predominanti le caratteristiche più istintivamente ‘vitali’: sessualità ecc.).
E’ interessante notare come l‘area di questo punto, (che in MTC viene anche chiamato  “Cancello del Fuoco della Vita”) nella tradizione indiana è considerata legata all’Elemento Fuoco, elemento molto importante per il risveglio e la realizzazione personale. Nella mitologia yogica, inoltre, Manipura è considerato come il ‘livello celestiale dell’esistenza’.
Tornando invece agli agopunti della MTC, sempre nella zona possiamo segnalare un altro punto che ha caratteristiche piuttosto simili a VC 4. Si tratta di Rene 13 (Qi Xue: ‘Foro - o Caverna - del Qi’) localizzato lateralmente a mezza distanza da VC 4.
Maciocia lo indica come punto che “…può essere usato per tonificare in modo profondo i Reni ed il Jing del Rene (come Guan Yuan – VC 4) grazie anche al fatto di essere un punto del Chong Mai, che fa circolare il Jing del Rene.”
‘Grasping the Wind’ ne parla come un punto di manifestazione del Qi renale e dice che nella tradizione anche qui vengono assegnati nomi diversi allo stesso punto: ‘Porta del Bambino’ al punto di destra e ‘Cancello dell’Utero’ a quello di sinistra. Sono questi dei nomi che avevamo già trovati in Guan Yuan, quindi possiamo ancora rilevare una certa ‘parentela’ tra questi punti che risiedono in questa zona legata all’Hara.
Un altro punto importante che si riferisce sempre a quest’area è VC 6 (Qi Hai: ‘Mare del Qi’) che troviamo posizionato circa due dita sotto l’ombelico.
Maciocia lo definisce “…uno dei maggiori punti del corpo, con un forte effetto sul Qi e lo Yang. Può essere usato per un forte esaurimento fisico e mentale e contro la depressione. Tonifica inoltre la Yuan Qi e lo Yang del Rene.” E’ un punto che reagisce molto bene alla tecnica di moxibustione ed è ottimo per quei pazienti che hanno la sensazione che ogni cosa nella vita sia una fatica. Quindi possiamo definire anche questo un forte punto di ‘rigenerazione’.
Il nostro testo americano lo dà come zona di grande riserva del Qi di tutto il corpo ed afferma che “…nelle pratiche Taoiste di meditazione il respiro viene portato in questa zona ed il Qi viene qui immagazzinato.”
Tra VC 4 e VC 6 abbiamo poi il punto Mu di Triplice Riscaldatore (VC 5 Shi Men: Porta di Pietra) che, anche per via del suo legame col T.R. (che è ‘Via maestra’ della Yuan Qi) ha una forte influenza sulla questa energia originaria: “…stimola la circolazione della Yuan Qi negli organi e nei meridiani.” (Maciocia). Rileviamo inoltre come anche Shi Men abbia tra i suoi nomi alternativi ‘Campo del Cinabro’ e ‘Cancello della vita’.
Riassumendo quindi le caratteristiche energetiche generali di quest’area, ne rileviamo una forte relazione con le nostre energie originarie (sempre abbiamo trovato riferimenti alla Yuan Qi). E’ un’area fortemente collegata con i Reni (come sede del Jing originario) e di grande rapporto con lo Yin e lo Yang del nostro organismo.
Inoltre, in tutti i punti che abbiamo potuto analizzare, abbiamo sempre trovato l’idea del rinnovamento e della rigenerazione che avevamo avuto modo di leggere anche negli ideogrammi.
Credo però che questa zona non ci apra solo ad un contatto con le nostre “Grandi Energie”, cioè le nostre energie costituzionali profonde. Nella citazione di Von Durckheim dalla quale siamo partiti, circa la malattia e la guarigione, si parla di Hara come di una possibile apertura a forze ancora più nascoste, profonde e potenti.
Molte sono le pagine che Von Durckheim dedica nel suo libro a questa ipotesi, da queste pagine possiamo partire per un’ultima riflessione sull’Hara.

 

III


Il nostro autore tedesco lascia intendere che la Via che porta allo sviluppo di questo nostro ‘Centro energetico’ ci apre a forze profonde e misteriose.
Queste forze sembrano andare ben oltre le nostre potenzialità’ individuali, qui ed ora (intendendo con questa espressione le nostre caratteristiche energetiche costituzionali prese così come sono in un determinato momento della nostra vita).
Egli afferma infatti che l’uomo che dispone di Hara non è rimesso solamente a sé stesso, in quanto “….questo ancorarsi nel Centro assicura all’uomo una forza che lo mette in grado di padroneggiare l’esistenza in modo diverso di quanto gli sarebbe possibile per mezzo del solo ‘Io’. E’ una forza che sostiene e che rinnova l’essere in maniera misteriosa, una forza che ordina e che dà forma, che risolve e rende interi, che unifica.”
Affidandosi ad Hara, dice ancora, l’uomo “….mette le proprie capacità al servizio di una forza profonda che compirà per lui l’opera  e l’azione quasi senza che egli intervenga. Ma l’attivazione di codesta forza ha per premessa l’ancoraggio dell’uomo all’Hara, nel Centro libero dall’Io.”
La Via che consente lo sviluppo di Hara permetterebbe quindi all’uomo di vivere questa forza nel suo duplice aspetto: come una forza speciale che può usare nella sua vita nel mondo e che, nel contempo, gli permette di entrare in contatto con le energie metafisiche della sua essenza più profonda.
Questo contatto, secondo Von Durckheim, è il senso più profondo di Hara. E il percorso che un individuo compie in questa Via di ricerca e di allenamento per lo sviluppo di Hara ha il senso di un percorso in una ‘Via Interiore’ che consente “…l’unità con l’Essere e l’Essenza sovramondani”.
Quindi il contatto profondo con Hara permetterebbe all’uomo di rapportarsi con una dimensione più ampia, aprendolo a quella che viene definita “la Grande Vita che sorregge e protegge”. In questa dimensione egli verrebbe ad acquisire un nuovo sentimento del vivere e  il senso di una nuova forza e di una nuova ‘vicinanza’.
“Non è – continua Von Durckheim – una forza che ‘si ha’ ma una forza nella quale ‘si è’ . In essa l’uomo percepisce la sua partecipazione ad un ‘Essere’ a cui, nel senso più profondo, appartiene e a cui è più legato che non al mondo. Sente anche che essa non costituisce solamente il fondo vero della sua vita ma altresì il principio più profondo dell’intero Universo.”
E’ interessante notare come in molte affermazioni di Von Durckheim ritornano quei concetti di ‘Sorgente’ e di ‘Origine’ che abbiamo continuamente avuto modo di leggere negli ideogrammi di Hara e negli agopunti che abbiamo analizzati, pur se nelle sue parole intendono assumere significati molto più ampi.
Scrive infatti che “….E’ come se grazie all’Hara l’uomo percepisse ciò che esso è nel senso primordiale; come se egli scoprisse quella scaturigine profonda della propria natura….. Solo l’emergere di questa natura originaria e il contatto con l’Essere che essa stabilisce apre all’uomo la Via verso la sua vera autorealizzazione.” (Nella tradizione Yoga, d’altra parte, avevamo visto che l’aprirsi di Manipura Chakra permette l’inizio del cammino evolutivo dell’uomo verso i ‘piani alti’ della coscienza).
L’ultima parte del libro di Von Durckheim è poi dedicato all’importanza della ‘pratica’, e in queste righe leggiamo un’affermazione di grande importanza: “…non si capisce come ai nostri tempi si pensi che si possa prescindere da una pratica quando si tratta di aprirsi una Via verso la trascendenza.” Secondo le affermazioni di Von Durckheim, quella di Hara è quindi anche una grande forza trascendente, della quale non è certo facile dire cosa esattamente sia. Però, egli scrive, “…essa si manifesta quale forza cosmica in date varietà dell’esperienza vissuta e può venire assunta in una costituzione interiore grazie alla quale l’uomo per un lato la vive, dall’altro può dimostrarla nel mondo.”
Riflettendo su queste pagine non si può fare a meno di pensare che, pur se con terminologie diverse, possiamo trovare “tracce di Hara” (o di qualcosa di molto simile) anche in altre Vie di trascendenza (o in altri cammini religiosi, per usare parole più semplici e più adeguate alla nostra cultura e alle nostre tradizioni).
Nel suo libro Bendowa (Il cammino religioso – ed. Marietti) scritto nel 1231, Dogen, il Maestro  Zen fondatore della Scuola Soto, raccomanda di affidarsi completamente alla forza dell’Universo che tutto sostiene.
Affidandosi, nella pratica dello zazen, a questa forza “…si dischiude tutta l’ampiezza e la profondità del mondo senza limiti.”
La traduzione letterale di Bendowa significa ‘Sulla pratica della Via’, e contiene il cuore dell’insegnamento di Dogen.  Nella pratica concreta di assumere con il proprio corpo la posizione seduta della meditazione zen (zazen) è possibile affidarsi a questa grande forza trascendente.  Scrive Dogen: “A chiunque sin dalla nascita è dato con pienezza il principio della condizione in cui la persona vive il ‘Sé originale’ genuinamente.  Però, se non passa attraverso il fare praticamente proprio zazen, quel principio non appare manifestato e se non si evidenzia nello zazen in realtà non lo si ha….Solo la pratica effettiva dello zazen è direzione e forma fondamentale del vivere in modo autentico il Sé originale.”   Questo è quello che Dogen chiama “l’insegnamento misterioso e sottile trasmesso da tutti i Buddha e i Patriarchi”.
In questo senso, e con questa visione delle cose, anche alcune affermazioni di Meister Eckhart, mistico cristiano vissuto intorno al 1200, escono da quella genericità in cui troppo spesso le consideriamo, per assumere una concretezza diversa. Per fare un esempio: scrive Eckhart “Chi vuole penetrare nel fondo di Dio, in ciò che ha di più intimo, deve prima penetrare nel suo fondo proprio, in ciò che esso ha di più intimo.  In effetti nessuno può conoscere Dio, se prima non conosce se stesso.” (La Via del distacco – Mondadori).
Forse, con queste parole, Eckhart vuole proprio indicarci che esiste una possibilità di sperimentare concretamente quel ‘contatto’ con qualcosa che possiamo pensare come l’origine stessa della nostra esistenza.
Per  concludere, e tornando al pensiero dal quale eravamo partiti, Hara viene proposta anche come una grande forza di guarigione. Non ho mai potuto fare a meno di pensare alle parole del Maestro (e medico taoista) Jeffrey Yuen in una sua conferenza a Milano di qualche anno fa.
Parlando di alcune diverse modalità di intervento terapeutico, Jeffrey Yuen riconosceva l’esistenza e la possibilità, tra queste, di una modalità del tutto particolare, che lui definiva di tipo ‘sciamanico’. Una modalità che è oltre l’abilità soggettiva del terapeuta e oltre la condizione oggettiva del paziente.
L’uso di questo termine ‘sciamanico’ non può fare a meno di rimandarci ancora una volta alla capacità di sapersi  affidare, da parte dell’uomo, a quelle forze profonde e misteriose alle quali, come dice Von Durckheim “…l’Hara certamente lo apre.”




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