Il Potere straordinario dell'Accettazione Totale


Molte persone si costruiscono la propria prigione fatta di insoddisfazione, di ferite auto-inflitte, di paure immotivate… tutti fardelli che bloccano il loro sé tenendole in trance.

Il metodo dell’Accettazione Totale spiegato in questo libro ci libera da una trance frenetica di “email, troppi impegni, corse, raggiungere, consumare e acquistare”, insegnandoci a coltivare una presa di coscienza consapevole e compassionevole verso noi stessi. In questo modo cominciamo ad accettare chi siamo nel presente e le nostre vite per quello che sono.

Il metodo dell’accettazione totale non prevede che si accettino le cose così come sono o che ci si rassegni agli eventi. Si tratta piuttosto di cercare di ricavare il buono da ogni situazione attraverso la meditazione, prendendoci una pausa dai ritmi frenetici della vita.

Nel libro si trovano suggerimenti su come affrontare le diverse emozioni negative e tutti gli ostacoli che ci impediscono di essere sereni attraverso pratiche che attingono dalla tradizione buddista.

Frequenti i rimandi alle tecniche suggerite da Thich Nhat Hanh e ai suoi insegnamenti, come per esempio quello di affrontare la paura, imparando a convivere con essa e imparare da essa per trarne beneficio.


ESTRATTI DAL LIBRO:

Ci tratteniamo e rimaniamo sul sicuro piuttosto che rischiare il fallimento.
Quando mio figlio, Narayan, aveva 10 anni, passò una fase in cui era
molto riluttante a provare nuove cose. Voleva essere subito bravo in tutto e, se
gli pareva che quell’attività richiedesse impegno, si sentiva intimorito. Provavo
a parlargli di come le parti più belle della vita comportavano alcuni rischi e del
fatto che gli errori erano inevitabili. I miei suggerimenti per fargli espandere i
suoi orizzonti con delle lezioni di tennis o partecipando a un saggio musicale
incontravano sempre una certa resistenza. Dopo uno dei miei inutili tentativi
di coinvolgerlo in qualcosa di nuovo, la risposta di Narayan è stata citare Homer
Simpson: «Provare è il primo passo per il fallimento».
Rimanere sul sicuro implica evitare situazioni di rischio, che comprendono
più o meno tutta la vita. Potremmo evitare di assumere un ruolo di leadership
o responsabilità al lavoro, potremmo evitare di entrare in intimità con gli altri,
potremmo trattenerci dall’esprimere la nostra creatività, dal dire quello che
vorremmo, dall’essere scherzosi o affettuosi.

Ci tiriamo indietro dalla nostra esperienza del momento attuale.
Evitiamo la nostra felicità e la passione, la nostra paura e la vergogna, perché
ci sentiamo impotenti davanti alla loro forza. Mettiamo un freno alla nostra
esperienza effettiva giudicandola continuamente o interpretandola attraverso
le storie che raccontiamo a noi stessi riguardo quello che sta succedendo. Mentre
ci sono infinite variazioni sul materiale, manteniamo alcuni temi ricorrenti:
quello che dobbiamo fare, quello che non ha funzionato, che problemi potremmo
incontrare, come ci vedono gli altri, come gli altri soddisfano (o no)
i nostri bisogni, come gli altri interferiscono o ci deludono. C’è una vecchia
storiella di una madre ebrea che manda un telegramma al figlio: «Comincia a
preoccuparti, in seguito i dettagli». Visto che viviamo in un fluttuante stato di
ansia, non abbiamo neanche bisogno di un problema per dare il via a un fiume
di scenari disastrosi. Vivere nel futuro crea l’illusione che stiamo gestendo la
nostra vita e ci protegge dal fallimento personale.

Ci teniamo impegnati.
Essere impegnati è un modo riconosciuto a livello
sociale di tenerci a distanza dal nostro dolore. Quanto spesso sentiamo che
qualcuno che ha appena perso una persona cara “se la sta cavando tenendosi
impegnato”? Se ci fermiamo, corriamo il rischio di affondare nella sensazione
insopportabile di essere soli e profondamente inutili. Perciò lottiamo
per riempiere noi stessi, il nostro tempo, il nostro corpo e la nostra mente.
Potremmo comprare qualcosa di nuovo o perderci in stupide conversazioni.
Appena abbiamo un vuoto, andiamo online per controllare le nostre email,
mettiamo della musica, mangiamo qualcosa, guardiamo la televisione, qualsiasi
cosa per seppellire le sensazioni di vulnerabilità e mancanza che serpeggiano
nella nostra psiche.

Diventiamo i nostri critici peggiori. I commenti che ci girano in testa ci
ricordano incessantemente che facciamo casino, che gli altri riescono a gestire
le loro vite in maniera molto più efficiente e con maggiore successo. Spesso
proseguiamo da dove i nostri genitori si sono fermati, ricordandoci in modo
evidente tutti i nostri difetti. Come dice il disegnatore Jules Feiffer: «Sono
cresciuto per avere l’aspetto di mio padre, il modo di parlare di mio padre, la
postura di mio padre, la camminata di mio padre, le opinioni di mio padre e
l’idea di mia madre su mio padre». Tenere d’occhio quello che non va in noi
ci dà la sensazione che stiamo controllando i nostri impulsi, nascondendo le
nostre debolezze e possibilmente migliorando il nostro carattere.

Diventiamo ipersensibili ai fallimenti degli altri. C’è un detto secondo
cui il mondo si compone di persone che pensano di aver ragione. Più ci
sentiamo inadeguati, più vogliamo sentire di aver ragione e gli altri torto. Ci
arrabbiamo con coloro che non riconoscono il nostro talento o non ci trattano
con il rispetto che vogliamo. Ci arrabbiamo e spazientiamo quando l’incompetenza
di qualcun altro minaccia di dare una brutta impressione di noi o
rovinare la nostra reputazione. Quando le cose vanno male e ci sentiamo già
inadeguati, ammettere i nostri errori ci mette troppo a disagio. Dare la colpa
agli altri ci solleva temporaneamente dal peso del fallimento.
La dura verità è che tutte queste strategie rinforzano solamente le insicurezze
che sostengono la trance dell’inadeguatezza. Più ci raccontiamo
ansiosamente storie di come potremmo fallire o di quello che non va in
noi o negli altri, più approfondiamo le vie – i sentieri neurali – che creano
le sensazioni di mancanza. Ogni volta che nascondiamo una sconfitta, rinforziamo
la paura di non essere abbastanza. Quando ci sforziamo per fare
colpo o essere superiori agli altri, rafforziamo la convinzione sottostante di
non essere abbastanza bravi così come siamo. Questo non vuol dire che non
possiamo competere in maniera sana, mettere tutto il nostro impegno al lavoro
o riconoscere ed essere contenti delle nostre competenze. Ma quando i
nostri sforzi derivano dalla paura di avere dei difetti, rendiamo più profonda
la trance dell’inadeguatezza.


Trasformare gli altri nel nemico
In questo capitolo ci siamo concentrati su come, senza paura, ci rivoltiamo contro
noi stessi e ci trasformiamo nel nemico, la fonte del problema. Proiettiamo
anche questi sentimenti all’esterno e trasformiamo pure gli altri nel nemico.
Più grande è la paura, maggiore è la nostra ostilità. Il nostro nemico diventa il
genitore che non ci ha mai rispettato, il capo che ci impedisce di avere successo,
un gruppo politico che ci sta togliendo il potere o la nazione che minaccia le
nostre vite. In questo mondo “noi contro loro”, l’indegno, il cattivo è “là fuori”.
Laddove c’è una faida famigliare o un una guerra generazionale fra gruppi
etnici, creare un nemico ci offre un senso di controllo: ci sentiamo superiori,
ci sentiamo giusti, crediamo di stare facendo qualcosa per il problema. Dirigere
la rabbia verso un nemico riduce temporaneamente i nostri sentimenti di
paura e vulnerabilità.
Ciò non vuol dire che le minacce reali non esistono. Possiamo essere un
problema per noi stessi; altri ci possono ferire. Ma se attacchiamo con odio e
violenza, se facciamo la guerra a noi stessi o agli altri, creiamo più paura, reattività
e sofferenza. Liberarci da questa trance della paura e alienazione diventa
possibile solo se rispondiamo alla nostra vulnerabilità con saggezza.


http://divinetools-raja.blogspot.it/ La Via del Ritorno... a Casa


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