Alcune malattie prendono il nome di: FAMIGLIA
Alcune malattie prendono il nome di: FAMIGLIA. L’importanza di differenziarsi dalle cerchie “familiari”
«Non è possibile vivere troppo a lungo nell’ambiente della propria fanciullezza o in seno alla famiglia senza che ciò costituisca un certo pericolo per la salute dello spirito. La vita chiama l’uomo fuori, verso l’indipendenza, e colui che per indolenza o timidezza infantili non obbedisce a questo appello è minacciato di nevrosi. Una volta scoppiata, la nevrosi diverrà progressivamente una ragione sempre più valida per fuggire la lotta con la vita e per rimanere impigliati per sempre nell’atmosfera moralmente velenosa dell’infanzia.»
(C.G.Jung – Simboli della Trasformazione, Edizioni Bollati Boringhieri, p.299)
“Non v’è nulla che abbia un influsso psichico più forte sull’ambiente circostante, e in special modo sui figli, che la vita non vissuta dei genitori” (C.G.Jung, 1929, p.6)
«.…i genitori proiettano sul proprio figlio l’ombra che non possono riconoscere nella propria vita. […] Il figlio è stato costretto dai genitori a caricarsi di tutti quegli aspetti d’ombra della esistenza che essi non sono stati capaci di integrare.»
(Amare Tradire: Quasi un apologia del tradimento, di Aldo Carotenuto, Edizioni Bompiani, p.35)
« Tutta la libido costretta nei vincoli familiari dev’essere ritirata da quella cerchia angusta per essere trasferita in una più ampia, giacchè per il benessere psichico dell’individuo è necessario che egli divenga da adulto il centro di un nuovo sistema, dopo essere stato nell’infanzia una semplice particella gravitante attorno all’antico centro. (…) la libido non utilizzata finirà inevitabilmente con il restare impigliata nel rapporto endogamo inconscio con i genitori, privando l’individuo di elementi essenziali della sua libertà. Ricordiamo quanto Cristo insistesse nella sua predicazione sulla necessità di un distacco radicale dell’uomo dalla sua famiglia (…), non si proponeva che uno scopo: liberare l’uomo dal suo attaccamento alla famiglia, che non è affatto imposto da una pretesa intelligenza superiore, ma che è da imputare semplicemente a un’estrema mollezza e alla mancanza dell’energia necessaria per dominare i propri sentimenti infantili. L’uomo, infatti, che lascia straripare la sua libido fissata all’ambiente dell’infanzia e non la libera per incanalarla verso mète più alte, cadrà in potere di una coazione inconscia. Dovunque egli sia, l’inconscio tornerà sempre a creargli l’ambiente infantile mercè la proiezione dei suoi complessi, ristabilendo così di continuo, e contro i suoi interessi vitali, la stessa dipendenza e la stessa carenza di libertà che in passato caratterizzavano il suo rapporto con i genitori. Il suo destino non è più nelle sue mani. (…) La libido, che rimane così fissata nella sua forma più primitiva, trattiene l’uomo a un livello corrispondentemente basso, a un livello cioè nel quale egli, lungi dall’avere il dominio sugli affetti, ne è al contrario alla mercè.»
(C.G.Jung – Simboli della Trasformazione, Edizioni Bollati Boringhieri, p.403)
«Quante volte si vedono figli non più giovani che vivono ancora con la madre (non mi riferisco, ovviamente, ai giovanissimi) e per i quali non è neppure sorto il conflitto che la spinta alla propria individuazione dovrebbe rendere a un certo punto esplosivo, inarrestabile. Molti giovani vivono in un limbo di possibilità, come barche splendide che si consumano nella darsena. L’universo si riduce al “cantiere” familiare, al “noto” delle piccole rassicurazioni e ricompense, dei piccoli e grandi delitti psicologici, eredità dei nonni e degli avi, pronti a tramandarsi nelle generazioni future. Si resta incagliati nella “secca” dei codici esistenziali e comunicativi della famiglia d’origine, invasi dai suoi pregiudizi e completamente inconsapevoli dell’oceano immenso e nuovo, adiacente, attorno a sé. Avere in proprio potere la dimensione psichica dei figli permette al genitore di garantirsi un’importanza, un ruolo preciso: il che è possibile solo se il figlio rimane ‘quel’ figlio che ad essi serve per sopravvivere psicologicamente senza troppi conflitti. Quanti di noi sono ancora figli nel senso indicato, legati mani e piedi a un invisibile incesto psicologico?
Mi tornano alla mente le ultime pagine di quel capolavoro di Rainer Maria Rilke che sono i suoi ‘Quaderni di Malte’. Qui il poeta elabora una sua versione della parabola del figliol prodigo e scrive (Rilke 1910, p.263):
“Nella parabola del figliol prodigo, io mi ostino a ravvisare la leggenda di colui che non voleva essere amato. E si durerebbe fatica a dissadermene.”
Non è semplice entrare pienamente in questo scritto di Rilke perché esso contiene, in un linguaggio poetico, un significato psicologico assolutamente rivoluzionario. Il figliol prodigo è per Rilke colui che è costretto a lasciare la casa paterna perché si rende conto che quello che lì viene amato, chiamato col suo nome, atteso per la cena, festeggiato per il suo compleanno ‘non è egli stesso’. Il figliol prodigo rifiuta quell’amore che non è ‘per lui’, quei doni che non sono ‘per lui’, e in questo senso è la parabola di “colui che non volle essere amato”. […] Rilke narra poi con splendida arte, le peripezie di questo giovane alla ricerca di se stesso, il contatto con la natura, l’attesa dell’amore di Dio e, infine, il ritorno a casa. Il tornare a casa del figliol prodigo non viene presentato da Rilke come un atto di rinuncia alla sua ricerca, ma come un superamento del tradimento. Come se egli capisse che la casa paterna in cui si viene disconfermati per ciò che si è più intimamente è una manifestazione della vita stessa, del tradimento della vita (Rilke 1910, p271):
“Forse, allora, restò.
Perché gli avvenne di accorgersi via via sempre di più, come quell’amore, di cui gli altri si mostravano tanto vanitosi stimolandovisi a gara, non riguardasse la sua persona solamente.
Avrebbe quasi sorriso di pietà, vedendoli arrabattarsi, per nulla, così. Appariva chiaro che non pensavano al Reduce.
Che cosa sapevano, infatti, di lui?
Amarlo, era divenuto, adesso, terribilmente difficile.
Egli sentiva che Uno solo sarebbe stato tanto da farlo.
Ma – quell’Uno – ancora , non voleva.”
Rilke ha colto il tradimento del figlio, la tragedia di non essere amato, di essere frainteso dall’”amore” dei genitori. E ha colto anche la risposta più umana e più saggia che si possa dare a questo equivoco terribile: andare via e tornare, cioè, in termini psicologici differenziarsi dagli aspetti malsani di quell’amore e poi perdonare, provare pietà per questi genitori che si “arrabattano, per nulla, così”. Questo vuol dire che il genitore capace di amarlo è diventato una figura interna, divina, quell’ “Uno” di cui parla Rilke, la cui disponibilità a venir fuori è lenta, lentissima, un vero mistero.»
(Amare Tradire: Quasi un apologia del tradimento, di Aldo Carotenuto, Edizioni Bompiani, p.39)
«IL giovane che si libera dalla costrizione del cerchio familiare e sceglie la proprio autonomia si troverà a fronteggiare difficoltà, dolori, ansie e l’immagine persecutoria del figlio fantasticato dai genitori. E’ così che la lotta ‘per’ qualcosa diventa lotta ‘contro’ qualcosa. La posizione di Gesù, dal “tradito” per eccellenza della nostra storia, appare del resto decisa nei confronti delle collusioni proprie del cerchio familiare. Quello di Gesù si configura inequivocabilmente come messaggio di divisione e conflitto, messaggio dunque che, a suo modo, investe l’area potenziale del tradimento (Matteo 10.34-35):
“Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera…”»
(Amare Tradire: Quasi un apologia del tradimento, di Aldo Carotenuto, Edizioni Bompiani, p.77)
[…] Come afferma infatti Hanna Wolff (1975) in riferimento al passo del Vangelo di Matteo sopra riportato:
“Per quanto possa suonare presuntuoso, solo la psicologia del profondo può capirlo fino in fondo. In effetti Gesù ‘scioglie da’, ‘divide dal’ collettivo della famiglia. Egli dissolve la ingenua ‘participation mystique’, affinchè possano venire alla luce individui singoli, indipendenti e responsabili.”»
(Amare Tradire: Quasi un apologia del tradimento, di Aldo Carotenuto, Edizioni Bompiani, p.78)
(C.G.Jung – Simboli della Trasformazione, Edizioni Bollati Boringhieri, p.299)
“Non v’è nulla che abbia un influsso psichico più forte sull’ambiente circostante, e in special modo sui figli, che la vita non vissuta dei genitori” (C.G.Jung, 1929, p.6)
«.…i genitori proiettano sul proprio figlio l’ombra che non possono riconoscere nella propria vita. […] Il figlio è stato costretto dai genitori a caricarsi di tutti quegli aspetti d’ombra della esistenza che essi non sono stati capaci di integrare.»
(Amare Tradire: Quasi un apologia del tradimento, di Aldo Carotenuto, Edizioni Bompiani, p.35)
« Tutta la libido costretta nei vincoli familiari dev’essere ritirata da quella cerchia angusta per essere trasferita in una più ampia, giacchè per il benessere psichico dell’individuo è necessario che egli divenga da adulto il centro di un nuovo sistema, dopo essere stato nell’infanzia una semplice particella gravitante attorno all’antico centro. (…) la libido non utilizzata finirà inevitabilmente con il restare impigliata nel rapporto endogamo inconscio con i genitori, privando l’individuo di elementi essenziali della sua libertà. Ricordiamo quanto Cristo insistesse nella sua predicazione sulla necessità di un distacco radicale dell’uomo dalla sua famiglia (…), non si proponeva che uno scopo: liberare l’uomo dal suo attaccamento alla famiglia, che non è affatto imposto da una pretesa intelligenza superiore, ma che è da imputare semplicemente a un’estrema mollezza e alla mancanza dell’energia necessaria per dominare i propri sentimenti infantili. L’uomo, infatti, che lascia straripare la sua libido fissata all’ambiente dell’infanzia e non la libera per incanalarla verso mète più alte, cadrà in potere di una coazione inconscia. Dovunque egli sia, l’inconscio tornerà sempre a creargli l’ambiente infantile mercè la proiezione dei suoi complessi, ristabilendo così di continuo, e contro i suoi interessi vitali, la stessa dipendenza e la stessa carenza di libertà che in passato caratterizzavano il suo rapporto con i genitori. Il suo destino non è più nelle sue mani. (…) La libido, che rimane così fissata nella sua forma più primitiva, trattiene l’uomo a un livello corrispondentemente basso, a un livello cioè nel quale egli, lungi dall’avere il dominio sugli affetti, ne è al contrario alla mercè.»
(C.G.Jung – Simboli della Trasformazione, Edizioni Bollati Boringhieri, p.403)
«Quante volte si vedono figli non più giovani che vivono ancora con la madre (non mi riferisco, ovviamente, ai giovanissimi) e per i quali non è neppure sorto il conflitto che la spinta alla propria individuazione dovrebbe rendere a un certo punto esplosivo, inarrestabile. Molti giovani vivono in un limbo di possibilità, come barche splendide che si consumano nella darsena. L’universo si riduce al “cantiere” familiare, al “noto” delle piccole rassicurazioni e ricompense, dei piccoli e grandi delitti psicologici, eredità dei nonni e degli avi, pronti a tramandarsi nelle generazioni future. Si resta incagliati nella “secca” dei codici esistenziali e comunicativi della famiglia d’origine, invasi dai suoi pregiudizi e completamente inconsapevoli dell’oceano immenso e nuovo, adiacente, attorno a sé. Avere in proprio potere la dimensione psichica dei figli permette al genitore di garantirsi un’importanza, un ruolo preciso: il che è possibile solo se il figlio rimane ‘quel’ figlio che ad essi serve per sopravvivere psicologicamente senza troppi conflitti. Quanti di noi sono ancora figli nel senso indicato, legati mani e piedi a un invisibile incesto psicologico?
Mi tornano alla mente le ultime pagine di quel capolavoro di Rainer Maria Rilke che sono i suoi ‘Quaderni di Malte’. Qui il poeta elabora una sua versione della parabola del figliol prodigo e scrive (Rilke 1910, p.263):
“Nella parabola del figliol prodigo, io mi ostino a ravvisare la leggenda di colui che non voleva essere amato. E si durerebbe fatica a dissadermene.”
Non è semplice entrare pienamente in questo scritto di Rilke perché esso contiene, in un linguaggio poetico, un significato psicologico assolutamente rivoluzionario. Il figliol prodigo è per Rilke colui che è costretto a lasciare la casa paterna perché si rende conto che quello che lì viene amato, chiamato col suo nome, atteso per la cena, festeggiato per il suo compleanno ‘non è egli stesso’. Il figliol prodigo rifiuta quell’amore che non è ‘per lui’, quei doni che non sono ‘per lui’, e in questo senso è la parabola di “colui che non volle essere amato”. […] Rilke narra poi con splendida arte, le peripezie di questo giovane alla ricerca di se stesso, il contatto con la natura, l’attesa dell’amore di Dio e, infine, il ritorno a casa. Il tornare a casa del figliol prodigo non viene presentato da Rilke come un atto di rinuncia alla sua ricerca, ma come un superamento del tradimento. Come se egli capisse che la casa paterna in cui si viene disconfermati per ciò che si è più intimamente è una manifestazione della vita stessa, del tradimento della vita (Rilke 1910, p271):
“Forse, allora, restò.
Perché gli avvenne di accorgersi via via sempre di più, come quell’amore, di cui gli altri si mostravano tanto vanitosi stimolandovisi a gara, non riguardasse la sua persona solamente.
Avrebbe quasi sorriso di pietà, vedendoli arrabattarsi, per nulla, così. Appariva chiaro che non pensavano al Reduce.
Che cosa sapevano, infatti, di lui?
Amarlo, era divenuto, adesso, terribilmente difficile.
Egli sentiva che Uno solo sarebbe stato tanto da farlo.
Ma – quell’Uno – ancora , non voleva.”
Rilke ha colto il tradimento del figlio, la tragedia di non essere amato, di essere frainteso dall’”amore” dei genitori. E ha colto anche la risposta più umana e più saggia che si possa dare a questo equivoco terribile: andare via e tornare, cioè, in termini psicologici differenziarsi dagli aspetti malsani di quell’amore e poi perdonare, provare pietà per questi genitori che si “arrabattano, per nulla, così”. Questo vuol dire che il genitore capace di amarlo è diventato una figura interna, divina, quell’ “Uno” di cui parla Rilke, la cui disponibilità a venir fuori è lenta, lentissima, un vero mistero.»
(Amare Tradire: Quasi un apologia del tradimento, di Aldo Carotenuto, Edizioni Bompiani, p.39)
«IL giovane che si libera dalla costrizione del cerchio familiare e sceglie la proprio autonomia si troverà a fronteggiare difficoltà, dolori, ansie e l’immagine persecutoria del figlio fantasticato dai genitori. E’ così che la lotta ‘per’ qualcosa diventa lotta ‘contro’ qualcosa. La posizione di Gesù, dal “tradito” per eccellenza della nostra storia, appare del resto decisa nei confronti delle collusioni proprie del cerchio familiare. Quello di Gesù si configura inequivocabilmente come messaggio di divisione e conflitto, messaggio dunque che, a suo modo, investe l’area potenziale del tradimento (Matteo 10.34-35):
“Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera…”»
(Amare Tradire: Quasi un apologia del tradimento, di Aldo Carotenuto, Edizioni Bompiani, p.77)
[…] Come afferma infatti Hanna Wolff (1975) in riferimento al passo del Vangelo di Matteo sopra riportato:
“Per quanto possa suonare presuntuoso, solo la psicologia del profondo può capirlo fino in fondo. In effetti Gesù ‘scioglie da’, ‘divide dal’ collettivo della famiglia. Egli dissolve la ingenua ‘participation mystique’, affinchè possano venire alla luce individui singoli, indipendenti e responsabili.”»
(Amare Tradire: Quasi un apologia del tradimento, di Aldo Carotenuto, Edizioni Bompiani, p.78)
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